Concetto Marchesi

TESTO DELLA CONFERENZA TENUTA DA BRUNO CASATI IL  12 FEBBRAIO 2012 PRESSO IL CENTRO, IN UN INCONTRO CON I GIOVANI UNIVERSITARI DELL’ASSOCIAZIONE LAPSUS

Vorrei parlare della vita di Concetto Marchesi (CM) partendo dal suo funerale. Muore a Roma il 12 Febbraio 1957 a 79 anni.

Fu Palmiro Togliatti a pronunciare l’elogio funebre, ricco di colte citazioni, da Gramsci a De Sanctis. L’Unità dedicò alla vita e alle opere di CM ben quattro fitte pagine. Ma anche i giornali della borghesia non furono da meno. Ad esempio, ll Corriere della Sera lo ricordò come un “ militante comunista di ispida personalità che ha studiato con penetrazione alcune delle figure più severe del mondo classico: da Petronio a Fedro, Orazio, Seneca, Marziale”. Tutti allora ne parlarono con stima e rispetto.

Quella di CM era una figura importante, ma anche complessa. Potremmo dire oggi che, in lui, si intrecciavano due anime: quella del filologo raffinato, lo studioso elegante, affascinante,  dall’ eloquio erudito e, insieme, quella del politico impetuoso, sferzante  e talvolta beffardo nel suo sarcasmo, incurante (anzi quasi narcisisticamente compiaciuto) di essere indicato come settario. È istruttivo rileggere i suoi scritti e i suoi discorsi raccolti nel libro “Perché sono comunista”. Perché CM è diventato comunista? Lui nasce a Catania nel 1878. Il processo dell’unità d’Italia, imposto militarmente dal nord, è in corso e lo pagano duramente i lavoratori della terra e delle prime fabbriche. Il giovane CM è attratto sia da chi si ribella sia da chi abbassa la testa. Già a 16 anni fonda il  giornale il “Lucifero” che, appena uscito, viene sequestrato con il giovane direttore condannato ad un mese di reclusione perché (così la sentenza):“aveva osannato con furore ideologico agli anarchici francesi condannati a morte a seguito dei moti di  Parigi del ‘94”. La sentenza però diviene esecutiva solo al compimento del suo diciottesimo anno quando, puntualmente, i Regi Carabinieri si affrettano ad arrestarlo nella sede stessa dell’Università. Ma non è finita qui perché, durante quel mese di carcere, lui riuscì a farsene infliggere un altro “per oltraggio a pubblico ufficiale”, in quanto aveva insultato pesantemente un secondino. Insomma il giovane CM era un ribelle. Lui stesso si racconta così nei suoi libri di memorie avvertendo che, in quegli anni giovanili, guardando alla realtà contadina che lo circondava, sentiva montare dentro di sé la rabbia di chi ha una vendetta da compiere e, insieme, crescere inarrestabile la fede in un ideale da perseverare. Un ideale possente ma ancora indefinito. Narra infatti CM quanto gli dolesse vedere il peso insopportabile dello sfruttamento bestiale che opprimeva i braccianti della sua terra, così ricca di oliveti, vigne, grano, dei quali frutti essi non godono nemmeno in minima parte. Sono oppressi. E lo sono perché ci sono i baroni del  latifondo, gli oppressori. E i baroni hanno “più cura degli asini che portano le ceste, che non degli uomini che le riempiono”. E questi uomini sfruttati considerano ineluttabile il loro destino di veri e propri schiavi, abbassano la testa, non si ribellano, sono rassegnati. CM di questo scrive: “io allora avevo l’animo degli oppressi senza  avere la loro rassegnazione”. Non è ancora apparso sulla scena della storia dell’uomo il messaggio possente dell’Ottobre Sovietico “la terra a chi la lavora”, ma il giovane CM percepisce che quella è la direzione da intraprendere. È , diremmo oggi, l’imprinting del comunista ben prima che nasca il partito in cui far convergere quei sentimenti di giustizia sociale incanalandoli non più nella ribellione soggettiva, nel bel gesto isolato, ma nella lotta di classe. Ma quelle origini restano in CM indelebilmente impresse, lo accompagnano nella sua carriera. CM insegnò in diversi Istituti Superiori tra cui il Liceo di Pisa, città in cui fu consigliere democratico in Comune, cattedratico, latinista, storico della letteratura, docente a Messina dal 1915 al 1923, Rettore Magnifico a Padova. Un intellettuale di altissimo profilo e insieme un militante politico comunista.

CM era e resterà legatissimo al PCdI poi PCI, non dismettendo mai il proprio pensiero critico che, in qualunque occasione, si manifestò in dissenso aperto. Allora non era semplice dissentire nel PCI ma CM, nel 1947 (lui allora era autorevole membro dell’Assemblea Costituente), viola la convenzione di disciplina di Partito rifiutandosi di votare il famoso articolo 7 che riconosceva i Patti Lateranensi tra Stato e Vaticano. Quello era l’uomo con i suoi valori, le sue contraddizioni, i suoi gesti che talvolta ingeneravano aspre polemiche. La critica maggiore che, dopo la  Liberazione fu mossa a CM –da parte,in particolare, di Ludovico Geymonat ma anche, seppure in modo meno esplicito, di Luigi Longo – derivava però dal fatto che durante il fascismo, periodo in cui tutti i docenti dovevano prestare giuramento di fedeltà al regime, CM non si fosse sottratto a quel giuramento. A differenza, ad esempio, di Gaetano De Sanctis, il grande professore di storia antica che, pur di non giurare,  si dimette da rettore. Giorgio Amendola nelle sue memorie racconta però  che CM fu autorizzato a non sottrarsi al giuramento dallo stesso Ercoli-Togliatti da Mosca, era il 1931. Resta comunque il fatto che Geymonat rimproverò sempre a CM  quel gesto, Cesare Musatti invece lo difese, Luigi Longo avrebbe guardato sempre a CM con ruvida freddezza, Pietro Secchia invece ne  ebbe grande ammirazione. Sintesi: CM faceva discutere. V’è però da dire che in quei tempi di totale isolamento, clandestinità e persecuzione, era lo stesso centro all’estero del PCI (Gramsci era incarcerato dal novembre del ‘26) che invitava gli operai, ad esempio, ad operare  direttamente dentro le fila dei sindacati fascisti, e sarebbero poi stati questi operai gli organizzatori dei grandi scioperi del ‘43 e del ‘44, gli unici scioperi nell’Europa sotto il tallone di ferro nazista. E’ pertanto credibile che lo stesso atteggiamento (il PCI) l’avesse adottato anche con chi aveva il contatto formativo  con le giovani generazioni  nelle scuole  e nelle università. CM, e questo è comprovato, in quei tempi, aveva una  sua originale metodologia di critica al regime collocando, qui e là, nelle sue opere, messaggi che, da  un lato sfuggissero all’OVRA, la polizia di Mussolini, ma dall’altro venissero invece colti da intellettuali e studenti. Ad esempio, in quello che è considerato il suo geniale capolavoro “La Storia della Letteratura Latina”, trattando dell’Imperatore Giulio Cesare. CM colloca una frase che così recita: “le bocche si chiudono quando si è servi di ventura e non signori della storia”. Frasi come  questa, in quegli anni, venivano sussurrate, trasmesse, di bocca in bocca, e facevano opinione, offrivano speranza nel buio cupo del ventennio: “ma allora c’è ancora qualcunoche pensa, che critica, che esce dal coro osannante che grida Duce, Duce?”. E ,ancora ad esempio, quando a Perugia, nel 1942, CM, in una conferenza su Cornelio Tacito, azzarda una (pericolosa) critica diretta alla Germania Nazista alleata dell’Italia. Poi si arriva al 1943, all’8 settembre  e poi alla Repubblica di Salò. Per il PCI (e per CM) non è più tempo di mimetismi e mezze frasi: “o sei di qui, o sei di là”. E’ il momento di esporsi, passare alla lotta armata. Ed è il celeberrimo appello che CM rivolge agli studenti dell’Università  di Padova, di cui è Rettore, ai quali, nel discorso di apertura dell’anno accademico, chiede di unirsi alla Resistenza “battaglia suprema per la giustizia e la pace nel mondo”. Quel discorso è di fatto il manifesto del nostro Centro Culturale a Lui  intitolato.

Nel Natale del 1943 CM ripara a Milano sotto il nome di avvocato Antonio Mancinelli. A febbraio del ‘44 è in Svizzera ma, nel settembre, è all’Ossola calato nella meravigliosa utopia della Repubblica Partigiana, un piccolo mondo nuovo libero, e autogestito. Con lui ci sono Umberto Terracini, Franco Fortini, Gisella Floreanini e cento altri. Poi il sogno svanisce ad Alba ma si prepara l’insurrezione dell’ aprile 1945. E’ di quel periodo, che va dal settembre del ‘43 all’ aprile del ‘45, che si colloca un evento di cui si parlò a lungo, anzi se ne parla tuttora. Giovanni Gentile nel gennaio del ‘44, sul Corriere della Sera, rivolge al popolo italiano un invito alla concordia nazionale. Gentile non è certo un personaggio di secondo piano, è stato Ministro della Pubblica Istruzione negli anni Venti, membro del Gran Consiglio del Fascismo fino al 1930. Sul Corriere della Sera, mentre i partigiani sui monti, nelle campagne e nelle città organizzano la lotta contro il nazifascismo, mentre a Milano le camicie nere della Brigata Muti e i sadici torturatori della banda Koch seviziano e fucilano cittadine e cittadini, mentre sempre a Milano dal binario 21  partono treni carichi di ebrei e resistenti diretti ai campi di sterminio, mentre nelle Valli dell’Appennino i tedeschi in fuga compiono orrende stragi, sul Corriere della Sera, appunto, Giovanni Gentile, oggettivamente dalla parte degli oppressori, chiama al “vogliamoci  bene  fratelli d’Italia”, in  pratica chiede agli oppressi di arrendersi, farsi pecora in modo che il lupo li sbrani senza ostacoli. A Giovanni Gentile risponde sferzante il partigiano combattente Concetto Marchesi. Le sue parole, firmate, appaiono su un foglio clandestino “La lotta”. Così scrive CM : “concordia è unità di cuori, congiunzione di fede ed opere, concordia non è residenza inerte e fangosa di delitti e smemorataggini. Rimettere la spada nel fodero è rifocillare l’assassino”.  L’appello è respinto, non è più tempo di ambiguità, si è alla resa dei conti. La vicenda però non si chiude solo così, va verso ben altro epilogo. Infatti, nel marzo del 1944, lo scritto di CM, però non più firmato, viene ripubblicatointegralmente dalla rivista clandestina del PCI “La nostra lotta“. Solo che alla stentorea conclusione dell’articolo originale “rimettere  la spada nel fodero…”, viene aggiunta una frase (che si disse opera di Li Causi):”per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, Senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: morte!”. E la sentenza diviene esecutiva il 15 aprile 1944 quando Giovanni Gentile viene giustiziato a Firenze per mano del GAP  di Bruno Fanciullacci. L’evento ebbe allora enorme scalpore superato, solo qualche giorno dopo, dall’esecuzione per mano dei partigiani delle “Brigate Garibaldi” di Benito Mussolini e dei suoi gerarchi repubblichini. Ma l’eco della vicenda “esecuzione di Gentile”, di cui CM venne considerato il mandante, si riverbera fino ai giorni nostri  utilizzato dalle destre, così come viene fatto per Via Rasella, per dare della Resistenza una lettura negativa. A Firenze c’è tuttora  un processo aperto con al centro un libro documento dell’Avvocato Mandarano “dalla parte di Bruno Farinacci”, attaccato dalle destre che cercano di riscrivere la storia d’Italia  rovesciando il ruolo avuto dai fascisti: da assassini in eroi. Ma c’è anche un affascinante noir, scritto brillantemente nel 1985 da  Luciano Canfora dal titolo “la sentenza”, dove l’autore si interroga sul fatto che l’esecuzione di Giovanni Gentile sia stata ordinata dal centro del PCI (Togliatti  tornato in Italia nell’estate del 1944 e CM, come Li Causi del resto, è strettamente collegato con “il Capo” del partito) oppure sia stata una scelta autonoma dei gappisti fiorentini. Come in tutti i noir che si rispettino non si svela il finale. Il fatto è che quel primo articolo del gennaio ‘44, dove CM respinge con sdegno la mano tesa di Gentile, ha avuto in ogni caso, un peso specifico decisivo. Decisivo, perché portava la sua firma, decisivo perché CM, dopo il clamoroso gesto di Padova, aveva acquisito grande prestigio e influenza nel PCI e oltre. Togliatti  aveva,  da tempo, investito su di lui. È avviata, nell’Italia non ancora liberata, la costruzione del “partito di tipo nuovo”, in cui si sviluppa il modello gramsciano di partito articolato su tre pilastri: gli operai e i contadini, gli intellettuali, i rivoluzionari di professione. Ma l’ala operaista  del PCI guardava agli intellettuali con freddezza, se non con sospetto, Palmiro Togliatti coltivava con loro un rapporto stretto in tutti i campi, dalle arti alle scienze. Mai accondiscendente però, anzi,  talvolta aspro: famosa la sua spigolosa polemica con Elio Vittorini. Ed è proprio Togliatti che accenna al modello, appena rientrato in Italia, quando, nel Luglio del ‘44, convoca a Salerno il primo Consiglio Nazionale del PCI. E’ la svolta. Ed è ancora Togliatti che, nove mesi dopo, assegna a Concetto Marchesi, e non a caso, il discorso di apertura del Secondo Consiglio nazionale, che si tiene a Roma dal 7 al 10 Aprile del 1945, prima quindi dell’insurrezione armata del Nord e la liberazione di Milano, Torino e Genova. L’incipit del discorso di CM è di forte impatto emotivo:”mi trovo con tutti voi che dopo tanti anni, siete usciti alla luce del sole“. Lacrime ed applausi. Dinnanzi a lui ci sono compagni che si erano persi di vista nei venti anni di oscurità: ci sono i fondatori del PCdI  del 1921, ci sono i compagni che si sono aggiunti loro negli anni successivi nelle carceri o al confino, nella guerra di Spagna, nella lotta partigiana suimonti o in città. Spesso questi compagni non si conoscono nemmeno tra di loro, se non, talvolta, con i soli nomi di battaglia. Ancora più spesso sono espressione di gruppi di comunisti che non hanno nemmeno contatti con il centro. Il 50% dei presenti al secondo Consiglio Nazionale del PCI ha meno di 25 anni, nessuno di loro ha potuto conoscere Antonio Gramsci. A tutti questi compagni, dopo CM, parla Togliatti ed è il rapporto sul partito e “i nostri compiti”. Il Partito Comunista Italiano, quello che diventerà il più grande  partito comunista dell’Occidente, prende così forma, esce allo scoperto (ma non sarà così semplice farlo affermare). I combattenti in armi devono riconvertirsi in costruttori di quella che, in seguito, verrà definita come “la via italiana al socialismo”.CM in questo partito è personaggio di spicco. Pietro Secchia, lo storico infaticabile organizzatore, guarda a lui con orgoglio. CM è, l’abbiamo già ricordato, deputato alla Costituente, parlamentare nel 1948 dopo le nefaste elezioni del 19 aprile e poi ancora nel 1953, mai nascondendo le proprie idee anche quando si muovevano in controtendenza rispetto al senso comune opposto. Si riconosceva a fondo nel PCI ma aveva mantenuto lo spirito antico del ragazzo sedicenne che si schierava con gli oppressi e non abbassava mai la testa. Quando CM decideva di dissentire non aveva mezze misure ma, disponendo di una smisurata cultura, non diceva mai direttamente “non sono d’accordo” ma, con inattaccabile eleganza lo faceva dire ai classici. Così fece nel 1956 , l’esempio è clamoroso, all’Ottavo Congresso del PCI, quello in cui andava in discussione il famoso rapporto di Krusciov del 20° congresso del PCUS, il rapporto della destalinizzazione. CM non è d’accordo con questa fulminea liquidazione che, oltretutto, è portata avanti da chi ha osannato Giuseppe Stalin quando era in vita. E lo va a dire alla tribuna dove, dinnanzi a Togliatti e ascoltatissimo, usa con sarcasmo un dotto artifizio analogico:”Tiberio, uno dei più grandi e infamati Imperatori di Roma, trovò il suo implacabile accusatore in Cornelio Tacito. A Stalin, meno fortunato, è toccato Nikita Krusciov”.Concetto Marchesi morì l’anno dopo.

In pochi tratti e qualche sommario episodio si è raccontata la complessa figura di un grande intellettuale militante comunista al quale, i fondatori di questo Centro Culturale, hanno voluto dare allo stesso il suo nome, quasi volessero imprimere  a questo luogo un carattere libero, protestante, militante ma non dogmatico, il carattere del compagno Professore Concetto Marchesi. Non esistono, né a Milano né altrove, molti luoghi come questo, anche perché non esistono più figure come Concetto Marchesi ed è, inoltre,  stato colpevolmente dissolto il grande partito di massa articolato sui tre famosi pilastri: gli operai e i contadini, gli intellettuali, i rivoluzionari di professione. I primi ci sono ancora, sono tanti, oggi di tutte le razze, ma non contano niente, nessuno più li considera soggetti propulsori del cambiamento. I secondi non escono dalle loro cattedre universitarie, fanno comparsate televisive, si infilano nei vari consigli di amministrazione, ma, se si ricerca, non si trova traccia più  di  un Geymonat, di  un Banfi, di  un De Sanctis. Né, invano,  in campo artistico si trova traccia di un Guttuso, di un De Grada, di un Mucchi. Il tutto si è commercializzato e spettacolarizzato, in questa era di segni e di immagini dove, pur circolando miliardi di messaggi, nessuno più approfondisce e studia. E l’era, questa, degli “ignoranti informati”. In quanto ai rivoluzionari di professione è intervenuta nei decenni, a partire dagli anni Ottanta, una mutazione genetica in quanto hanno preso la scena i funzionari, quelli che tuttora misurano con il bilancino il tornaconto personale delle cose che dicono. Crollati i tre pilastri,m i partiti da essi sostenuti e la politica “arte del possibile” si è ridotta a pratica screditata di sopravvivenza di ceti politici lontani dalla gente. In versione italiana siamo all’americanizzazione della politica e alla trasformazione dei partiti, tutti, in comitati elettorali.

Ragionare oggi su Marchesi e Togliatti, Gramsci e Berlinguer non significa perciò  fare “un’operazione nostalgia”, ma guardare al futuro non rassegnandoci a ripetere la litania della “societàche è cambiata”, il che è vero, ed è cambiata in peggio, ma i rivoluzionari come Concetto Marchesi ci insegnano che è possibile “cambiare la società cambiata”. E’ un’utopia? Forse, ma noi del Centro Culturale CM non ci rassegniamo, noi ci sforziamo di essere concreti utopisti.