QUALE FUTURO PER IL SINDACATO

di Maria Sciancati*

Nel contesto di una crisi industriale senza precedenti e di un processo di redistribuzione della ricchezza a favore dei profitti, della rendita e della speculazione finanziaria,  il violento attacco ai diritti del lavoro e sociali con l’introduzione di norme come il famigerato articolo 8  (che consente alle imprese di derogare ai contratti e alle leggi)  e il “nuovo” articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, rendono sempre più difficile l’azione sindacale a difesa delle lavoratrici e dei lavoratori, sia quella collettiva che quella individuale.

Contemporaneamente, mai è stato così ampio lo scarto tra il Paese reale (che sta sempre peggio), il teatrino della politica e le scelte dei governi. E mai, come rispetto al governo cosiddetto “tecnico” e all’attuale delle larghe intese, è stato così basso il livello di iniziativa di contrasto alle misure devastanti sul piano sociale che il sindacato confederale ha messo in campo.

Chiamare questo scarto “crisi di rappresentanza” è un eufemismo: siamo oltre, siamo alla rivolta “di pancia” e  individuale contro “la casta” che comprende, ovviamente, anche il sindacato. E poco importa se in questo paese non esiste il sindacato, ma i sindacati (i tre confederali e quelli di base): il problema è generale. Poi si può eludere oppure affrontare.

Vorrei che la Cgil lo affrontasse davvero.

Perché il rischio non è solo e tanto la perdita di iscritti, ma l’istituzionalizzazione, la deriva burocratica, la subalternità al quadro politico e alle scelte dell’impresa, il progressivo distacco da ciò che accade nel mondo del lavoro.   Il rischio è la fine del sindacato come soggetto capace di offrire un terreno praticabile di cambiamento e l’affermazione di un modello corporativo e aziendale.

8-fondazione-della-cgil-1-10-1906Tra non molto in Cgil si avvierà il percorso congressuale. Il congresso della più grande organizzazione sindacale avrà un senso solo se saprà uscire dalla logica della “riduzione del danno” e del “non disturbare (troppo) il manovratore” e rimetterà al centro del suo dibattito e della sua azione l’autonomia, l’indipendenza, la democrazia e una diversa visione del mondo, del modello produttivo e sociale.

Ma questo significa affrontare nodi di fondo, compiere scelte nette e in discontinuità. Significa fare un ragionamento serio di politica contrattuale  o, meglio, non fingere che la distruzione del contratto nazionale di lavoro e la manomissione dell’art.18 (con lo strapotere che questo regala alle imprese) ti possa consentire di andare avanti come prima.  Non è così. Perché la contrattazione collettiva ha un senso solo se è mediazione tra interessi diversi, ma questo implica che nel mondo del lavoro esistano due soggetti, non uno solo. Significa porsi il problema di come tutelare le migliaia di persone che non hanno alcuna copertura contrattuale (persino i tedeschi della Ig-Metal lo stanno facendo…)

Significa fare un ragionamento serio sull’indipendenza e sull’autonomia. Perché quello che vuole l’impresa non è un sindacato con cui confrontarsi o confliggere, ma  è un sindacato che assuma e sostenga gli obiettivi dell’impresa. Quello che è accaduto in Fiat di questo ci parla: la “piattaforma”, lì, l’ha fatta Marchionne e poi ha chiesto al sindacato di sottoscriverla Altro che trattativa!

Significa fare un ragionamento serio sulla democrazia. Perché se non ti poni il problema di come riconquistare la soggettività di chi lavora, se nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole, in ogni luogo di lavoro, vige l’impossibilità di esercitare il conflitto, viene meno uno degli elementi di fondo della democrazia e il rischio che si affermi un modello autoritario si fa sempre più alto.

Significa fare un ragionamento serio anche sulla democrazia interna. Perché non basta scrivere su un documento che le diverse posizioni (che esistono) e il pluralismo sono una risorsa se poi, come è accaduto, quelle diverse posizioni non hanno alcuna possibilità di contare nei luoghi dove vengono prese le decisioni che spesso, troppo spesso negli ultimi anni, sono state assunte in gruppi ristrettissimi.

Questi sono i nodi che, nello scorso congresso, chi si riconosceva nel documento “la Cgil che vogliamo” aveva già posto e su cui la Fiom, troppo spesso in solitudine, insiste da tempo con la teoria e con la prassi. Volevamo cambiare la Cgil e non ci siamo riusciti, forse anche per limiti nostri.

Negli anni che ci separano da quel momento la situazione è drammaticamente peggiorata, i rapporti di forza sociali e politici sono sempre più squilibrati, in campo non esiste un movimento generale che rivendichi il cambiamento, dilagano paura e rassegnazione.

Anche per questo o la Cgil tutta vorrà e saprà “leggere” davvero questa fase inedita e pericolosa senza gli schemi del passato, vorrà e saprà indirizzare la forza che ancora ha con l’obiettivo di modificare lo stato di cose presenti oppure si ridurrà a gestire l’esistente. Ma non è di questo che hanno bisogno i giovani, i disoccupati, i pensionati di questo Paese. E per favore, non si chieda a qualcuno di continuare a fare le battaglie per tutti.

Quello che le imprese vogliono imporre è il rapporto individuale (come se azienda e singolo lavoratore fossero “alla pari”). Questa sarebbe la fine dell’agire collettivo e della possibilità di contrattare; sancirebbe l’inutilità del sindacato e la totale sottomissione dei lavoratori ai voleri dell’azienda. Proprio perché l’obiettivo dei padroni è chiaro l’esistenza del sindacato è fondamentale: a patto che sia autonomo, indipendente, democratico (nel rapporto con i lavoratori e nelle sue dinamiche interne), che non abbia paura del conflitto, che si ponga l’obiettivo di riunificare le lotte, le situazioni contrattuali e di estendere le tutele.

*già Segretaria generale della Fiom milanese

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